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Viaggio

Senza documenti non esisti: perché il diritto al viaggio deve essere portato al centro del dibattito pubblico

Arci Blob, Arcore (MB)
L’assenza di vie legali di viaggio costringe migliaia di persone ad affidarsi a trafficanti e rischiare la propria vita per spostarsi. Una volta giunti in Italia le difficoltà non finiscono. Migliaia di persone si trovano in un limbo a causa di leggi obsolete e lungaggini burocratiche che privano le persone straniere di diritti fondamentali.

Mezzago (MB). Se Marianna Crippa è diventata un’avvocata, lo deve senz’altro al libro “L’avvocato di strada” di John Grisham. Al posto dei senza tetto del celeberrimo romanzo, però, Marianna assiste e supporta legalmente decine di persone straniere con infiniti percorsi migratori. Lo fa da oltre dieci anni come socia volontaria presso lo sportello migranti dell’Arci Blob di Arcore e più recentemente anche presso il suo studio legale. “L’idea dello sportello nasce per agevolare le persone su ciò che sono le difficoltà degli stranieri in Italia”, spiega Marianna, una mattina di fine giugno, mentre sta accompagnando Moudou, un ragazzo maliano di 23 anni, alla prefettura di Monza per l’ennesimo rinnovo della protezione umanitaria. Dalla compilazione del kit postale al rinnovo del permesso di soggiorno, dall’orientamento al lavoro fino ad arrivare alla richiesta della cittadinanza, lo sportello migranti del circolo Arci si inserisce laddove le Istituzioni non arrivano.

Ogni giovedì sera, dalle 19 alle 22, le porte del circolo si aprono per andare incontro alle esigenze di chi frequenta lo sportello. “La vita delle persone dipende dai documenti per tantissime cose: dalla scuola dei figli alla sanità, dal lavoro ai ricongiungimenti familiari. Senza documenti non esisti”, esclama Marianna. E cosa succede quando il rinnovo dei permessi di soggiorno non avviene in tempi rapidi? Succede che non puoi andare a visitare un parente o un famigliare che vive in un altro paese UE. Succede che hai difficoltà a rinnovare il contratto o addirittura rischi di perderlo perché il datore di lavoro pensa che la persona straniera abbia dei problemi. È ciò che è accaduto a Monza – non proprio la questura più celere d’Italia – dove per i rinnovi si attendeva più di due anni fino a qualche mese fa, ora il tempo di attesa è diminuito ma è sempre oltre il periodo dei 60 giorni che a norma di legge non dovrebbe essere superato. “Capite che queste lungaggini burocratiche obbligano le persone a vivere in un limbo. E questo accade anche a chi è più avanti nel percorso migratorio. Pensate per esempio a chi ha fatto la richiesta di cittadinanza o la domanda di ricongiungimento. Ecco uno dei requisiti è il reddito ma non si considera che, nell’anno della pandemia, le persone hanno percepito meno reddito come migliaia di persone al mondo. I giudici, spesso, non contestualizzano. E questo priva le persone dei loro diritti”.

Marianna lo dice senza mezzi giri di parole con l’impeto di sdegno e di rabbia di una che ha raccolto centinaia di storie di ingiustizia. Storie che si porta dentro. Come quella di Ahmed, un ragazzo palestinese di Gaza, in fuga da Hamas, che si è fatto la rotta balcanica in condizioni indicibili. Oppure Ali dalla Guinea Conakry, in fuga per ragioni politiche, e mai creduto dalla Commissione nonostante le oltre nove ore di colloquio e la documentazione consegnata. Oppure le centinaia di persone che le hanno raccontato della Libia, delle torture, dei lager, dei rapimenti e dello sfruttamento. Si stima che siano circa 42 mila i rifugiati registrati in Libia (dati di giugno 2021), a cui si aggiungono circa 200 mila persone sfollate internamente e migliaia di migranti non registrati. Nel 2020 la Corte di Cassazione ha affermato che le violenze subite nei paesi di transito devono essere tenute in considerazione ai fini della valutazione della vulnerabilità di una persona. Una decisione tardiva ma necessaria, conferma Marianna, per tutelare chi ha subito violenze inaudite in Libia.

Salutiamo Marianna e Moudou, pronti a entrare al loro appuntamento in prefettura. Si sa quando si entra, non quando si esce. Dopo oltre sei ore, l’avvocata ci dà appuntamento nel suo studio a Mezzago, un piccolo Comune dove si respira più aria di montagna che di pianura. Lungo la strada si osservano fabbriche e capannoni che si alternano a campi di granturco alto due metri. Gli antichi cascinali sgarrupati indicano un passato sepolto dai successi dell’agroindustria. Dal lago di Lecco scende un profumo carico di pioggia. Basta osservare il territorio per rendersi conto che questa è una zona di migrazione, prima meridionale oggi straniera. Lo dicono le insegne dei negozi con la doppia lingua, i colori nelle strade e i capannoni industriali disseminati sul territorio. Secondo i dati dell’Istat, gli stranieri residenti in provincia di Monza e della Brianza al 1 gennaio 2021 sono 78.377 e rappresentano il 9% della popolazione residente, rispetto al 8% della media nazionale. Uomini e donne che lavorano nell’agricoltura, nell’industria pesante, nelle case di riposo o presso gli anziani del territorio, affrontando difficoltà enormi legate ai documenti, alla solitudine e anche al razzismo. “Il clima sociale e gli episodi di xenofobia sono aumentati rendendo ancora più difficile la vita per gli stranieri”, dice Marianna mentre ci accompagna nel suo piccolo studio, “se poi aggiungiamo le leggi ingiuste che vigono nel nostro Paese, ci rendiamo conto della discriminazione che queste persone vivono”. L’avvocata si riferisce alla legge Bossi-Fini e alle contraddizioni che essa pone legando permesso di soggiorno al contratto di lavoro. Non solo. Come ribadisce Crippa, il problema migratorio alla base è l’assenza di canali legali per viaggiare e migrare. “Il decreto flussi non funziona, i visti turistici vengono sempre rifiutati in ambasciata, la legge Bossi-Fini prevede che lo straniero abbia un contratto prima di partire il che risulta del tutto impossibile, non c’è un modo legale per muoversi. Non c’è un visto per ricerca lavoro o un visto umanitario. Basterebbe ampliare la politica dei visti, di ricerca lavoro, di studio, per permettere alle persone di spostarsi senza rischiare la vita e senza pagare i trafficanti ma la politica non vuole”. Mentre Marianna parla, gesticolando con passione, osservo la sua stanza piena di oggetti che parlano da soli. Alle pareti ci sono i disegni dalla frontiera di Francesco Piobbichi, operatore di Mediterranean Hope, da anni impegnato a parlare di diritto al viaggio e di corridoi umanitari. A destra le foto di Peppino Impastato, di Ebru Timtik, l’avvocata turca di origini curde, incarcerata senza un giusto processo, morta dopo 238 giorni di digiuno, e di Agitu Gudeta, la rifugiata etiope diventata simbolo di integrazione per la sua azienda “La Capra Felice”, barbaramente uccisa nel 2020. E poi i libri di Piero Calamandrei, un poster di Emergency con l’articolo 11 della Costituzione “L’Italia ripudia la guerra”. E infine la foto del suo papà ad osservarla sulla scrivania. “Loro sono i miei angeli custodi”, confessa Marianna con un pizzico di emozione che dura la frazione di un attimo. Si ricompone e subito torna l’avvocata agguerrita e sorridente. “Dobbiamo riportare al centro del dibattito il diritto al viaggio. Il diritto a muoversi, viaggiare e spostarsi non può essere solo prerogativa occidentale. Tutti dovrebbero avere questo diritto. E in fin dei conti ciò significa rimettere i diritti in circolo, incluso il diritto al movimento”.

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